VALDI SPAGNULO -TROPICI DELLA SCULTURA
Studio 28nero -Firenze
Sguardo mobile e immagine lenta: periboli di un’opera
Giacomo Biagi
Lo sguardo, sul repertorio di Valdi Spagnulo, deve essere condotto e posato con un atteggiamento necessariamente strabico: frontale e laterale, in diagonale o in tralice, come anche di sotto in su. Questo perché il corpus dell’artista si offre quale opera reversibile, dalla natura incerta, dalla critica colta e con attenzione seguita sin dagli esordi. Dalle letture essenziali di Alberto Veca e Luciano Caramel, alla ricostruzione delle fonti e dell’opera di Spagnulo di Luca Pietro Nicoletti, dovessimo inscrivere d’un sol colpo questo compendio entro una prospettiva, cinque sarebbero i principali caratteri, che ne angolano il profilo: il continuo transfert tra bidimensione del piano e tridimensione di una struttura che si stacca e aggetta dalla superficie; i materiali trattati, come una pelle sensibile; le componenti cromatiche e grafiche, di innesti materici e serpentine; l’assorbente attenzione infine a motivi precedenti e coevi, consultati e coniugati entro un disegno inedito e peculiare.
Per questo abbiamo deciso, in questa sede, di parlare di ‘tropici’ della scultura: per riferirci al repertorio di Valdi secondo un carattere ancipite. Da una parte una scultura condotta ai minimi termini, e che se pure affermata, sempre è forzata a rinegoziare un proprio status, nella convivenza qui compatibile con altre arti e dimensioni; dall’altra un’opera la cui funzione appare sostanzialmente tropica, laddove il tropo svincola il significato tipico di un determinato campo semantico, trasferendolo a un altro contesto, e in tal modo rendendolo permutante e ricettivo.
Intanto, la compenetrazione tra segno, bidimensionale, e segno in tridimensione emerge con evidenza nell’opera di Spagnulo sin dai grandi telai distorti, esposti per una prima volta in occasione della mostra alla Galleria Spaziotemporaneo, 1999, e di cui Sfiorar la luna è erede: l’impianto di base, un telaio, è piegato e saldato sino a incurvarsi invadendo con decisione uno spazio per lui inconsueto. Il perimetro, dagli spessori asimmetrici aggetta, chiudendo una superficie vuota come in un quadro, attraversato da un segno lineare e intervallato da una coppia di falci: queste appaiono riprese a calchi dalla sottrazione laterale di materia, di un foglio in plexiglass tagliato col flessibile. Come moti rotatori, il gioco bidimensione-rilievo è cadenzato infine dall’asimmetria tra l’oggetto che sporge e l’ombra riportata la quale entra ed esce integralmente dall’economia dell’immagine. In altri esemplari la presenza e l’innesto di vetri o di plexiglass, gialli, azzurri e rosacei inseriscono inoltre una sensibilità cromatica, convalidando nell’irregolarità delle forme la dimestichezza dell’artista con il purismo e la dimensione timbrica della pittura geometrica e ‘astratta’ da una parte, e con il sintetismo e le forme continue di precise linee scultoree dall’altra. L’ambivalenza riposa anche nella posizione reversibile di queste opere nello spazio. Talvolta appoggiate con andamento verticale, talvolta orientate in senso orizzontale, talaltra elevate e fissate a parete, la differente installazione di una medesima opera muta il movimento di linee-forza e vettori, rendendola, a livello percettivo, un dispositivo plastico dalla agency costitutivamente attiva.
Meno evidente è al contrario un elemento che funge anche questo da leva tra superficie e profondità, ovvero il rapporto tra tridimensione e progetto. Spagnulo non realizza mai disegni preparatori o progetti funzionali alla genesi dei lavori, piuttosto la scultura diviene nel processo grafico, e il progetto opera invece da matrice. Indicativa è La domus di Zeus: se Spagnulo si forma come architetto, avendo piena contezza degli strumenti di un mestiere, questi non sono applicati secondo gli schemi e i codici tipici della costruzione; l’artista piuttosto ne attinge e rimodula la direzione attraverso leggi non scritte, ma non per questo meno valide. La struttura filiforme è resa infatti sghemba dalle parti saldate fra loro ed è ulteriormente mossa dagli innesti di plexiglass, ma quale anima irregolare disegna lo spazio, traducendo nella tridimensione una ipotetica pianta di una domus romana riportata in verticale e privata di alzato (in cui all’esoscheletro di un corpo centrale immaginiamo annettersi un potenziale peristilio). Il differente spessore delle parti in ferro e dell’acciaio inox restituiscono altresì, nella forma complessiva, un’ipotesi di sezioni murarie. Di là da una lettura semplicemente ecfrastica la conversione in impianto scultoreo converge con precisione in una coincidenza e identità dunque, a livello di concezione, fra tre arti, architettura, scultura e dimensione grafica, attraverso il progetto. Scultura come architettura come disegno quindi, ma senza i paletti dell’autorefenzialità, o della tautologia, perché la forma risulta scompensata anzitutto dal corpo a corpo con la materia. Come Nicoletti evidenzia si tratta de facto di una “scultura che si fa con il saldatore”: le piegature e le torsioni sono spesso realizzate per mezzo di uno sforzo fisico dell’artista, ogni aggetto è ottenuto mediante l’incidente e la frizione di un arto, pressato vigorosamente contro la lamiera; e gli assemblaggi di materiali trovati o di scarto sono a un tempo esito di un concreto lavoro di carpenteria. Anche i plexiglass risultano infine prima tagliati, poi smaltati, talvolta sporcati con polvere di ferro o graffite: una volta applicati all’opera, colpiti dalla luce, restituiscono tutta una serie di rifrazioni rispondenti anche ai difetti, agli intagli e alle gradazioni della loro superficie. Anche per Domus in aqua l’impianto a telaio dell’opera è ottenuto dall’artista saldando resti di tubi in acciaio prima bruniti in una stufa a legna la quale conferisce alla patina una tonalità dorata o dall’effetto blu forte; la serpentina che si diparte dall’estremo destro, la serpentina che sigilla l’opera a sinistra sono a loro volta ritagli ottenuti da un tondino di ferro, mentre il frammento di vetro di un azzurro melange è inserito entro un’apposita fenditura realizzata sulla superficie metallica sempre attraverso il flessibile.
Dal cannello alla brunitura in stufa, dai frammenti di plexiglass alle paste vitree o ai frammenti antichi di Murano, gli assemblaggi si caricano volta volta di un carattere che non si esaurisce nella dimensione formale. La materia è latrice altresì di un’eroticità trattenuta, entro il quadro di una composizione, in cui un declivio di carta bruciata (quale gluteo femminile di profilo e dilaniato) riposa su di un punto di ripresa frontale e schematico; un fil di ferro piegato aggancia le due sezioni in rilievo orientandosi a una vulva-fessura-casa. Passaggio onirico testimonia per questo di un paesaggio di materiali e segni che non trascurano ma con vitalità attingono a retaggi visivi e plastici che incidono sui lavori; da Valdi Spagnulo esperiti e poi trasformati, per tramite di un processo che intesse un double bind: tra la posizione e il tempo dell’opera, rispetto alla posizione, e all’hic et nunc, dello spettatore.
L’opera di Valdi è per questo un’immagine lenta. Per quanto costitutivamente formata dall’assemblaggio di materiali, da direttrici e linee forza concretamente presenti, questa si mostra secondo un processo lento di agnizione, per cui il personaggio e la sua biografia d’improvviso si rivelano, nel confronto tra chi guarda e un lavoro che parla la sua storia. La costellazione di Sferoidi de La via lattea, 2008-2009, tra componente rematica e componente tematica, si qualifica negli effetti come mappa celeste di lamiere piegate a caldo, dentellate e forate, le cui ombre nette entrano in gioco con i più fiochi riverberi dei peduncoli in plexiglass; ma l’installazione meglio si comprende se, come sostenuto dall’artista e osservato dalla critica, si reinserisce la genesi dell’opera nella sodalità, e il dialogo, che instaura Spagnulo con Grazia Varisco, membro storico del Gruppo T (una T che sta per tempo). Gli Gnomoni di Varisco, realizzati tra Settanta Ottanta, erano per lei tramite attraverso cui esperire, nei giochi di lamine e di pieghe, nonché di ombre proiettate, l’ambiguità e le implicazioni del muoversi progressivo del tempo entro uno spazio d’esistenza eminentemente fisico, disegnato dall’asta di una meridiana: e per questo da intendere nelle sue componenti e differenti declinazioni come Gnom-one, two, three. Per simmetria poetica, dopo la concretazione del tempo di Grazia Varisco, per mezzo di un’unità di misura meta-fisica potremmo dire ma terrestre, la Via Lattea di Spagnulo in misura lirica restituisce in scultura la distanza dei punti di luce della cartografia celeste. Il principio cinetico e stereometrico della prima, si traducono nel mosaico grafico, zigzagato e polimaterico del secondo.
Al proposito di iconografie plastiche derivate, Spagnulo con disinvoltura pone a sintesi i principali anelli di una catena: i materiali nonché l’organizzazione tensiva delle linee e delle forme, del primo Costruttivismo di Naum Gabo, per esempio, con la scultura di linea di Fausto Melotti, e il carattere mobile delle sculture di Calder. Ma, ancora, dalle forze surrealiste, elemento latente è l’attenzione all’hasard objectif degli oggetti a funzionamento simbolico, in particolare del primo Giacometti. È all’incedere dei Trenta che Alberto Giacometti inizia a meditare, in compagnia di Breton, su di un’opera d’associazionismo tutto particolare, composta di “une boule fendue suspendue dans une cage et qui peut glisser sur un croissant”: entro una struttura metallica a doppio telaio una mezzaluna si strofina maliziosa a una sfera, secondo un movimento cinetico ed entro una dimensione compatta. Contenitore di segni, 1998, riprende il doppio telaio, la dimensione della sfera e della falce; nel mantenimento dell’articolazione interna, non ne assume però la compattezza d’insieme: la gabbia è spezzata, il croissant pesantemente collassa, e la sfera è ridotta a segno grafico, esile e sospeso. Contenitore di segni, erede dell’esperienza di Spagnulo nell’informe, coniuga analisi e sintesi entro un’opera in cui la reciprocità tra volume esterno e ciò che contiene diviene riflessione intima e simbolica (ma forse anche divertita e sincera) dell’artista, che coniuga così a voce propria figure topiche della scultura.
L’interpretazione infine, nei bilanciamenti della materia, nella sintassi semantica articolata in rilievo, è un viaggio comunque affidato all’osservatore. Guardando agli spigoli vivi di 4 Contra Domum, focalizzando il contrasto tra piano metallico e foglio di vetro, si pone attenzione all’asimmetria dell’apertura angolare; ed è impossibile per chi scrive non suggerirvi un’organizzazione d’insieme per piani, essenzialmente frontali ma in disasse, costituitasi, possibilmente, anche sulla scia di una certa scultura primaria, in particolare inglese. Ma non posso fare a meno, nel codice primitivo, di intercettare e riconoscervi anche lo squadrato profilo di una figura sdraiata, con fallo in erezione. Sullo sfondo l’immagine trasparente e vitrea di uno specchio di acqua che s’incunea in una baia; e sulla testa un diadema di piume di araras smaltate di bianco, di arancio e di blu: copricapo cerimoniale e di festa tipico degli indigeni Bororo. Questa immagine è tanto vera e d’invenzione quanto l’assemblaggio ponderato delle parti che Spagnulo monta e tratta, anche nei PS dei Progetti per Scultura: poscritti di un’opera permeabile al caso.
VALDI SPAGNULO – FERMAR L’ARIA
Palazzo Sarcinelli e Galleria Oltreartecontemporanea – Conegliano Veneto (TV)
I frammenti d’aria di Valdi Spagnulo.
Luca Pietro Nicoletti
La ricerca di Valdi Spagnulo, come è stato più volte ricordato dalla critica, rimonta a un filone della scultura del Novecento che ha staccato fra loro i concetti di “volume” e “massa”, rinunciando alla dimensione tattile della forma sia nell’atto creativo che in quello di fruizione: toccare l’opera, infatti, non arricchisce l’esperienza sensibile di chi la avvicina, e altrettanto non ha un ruolo rilevante nel lavoro di costruire e realizzazione pratica dell’immagine. Accantonati infatti sia la modellazione sia l’intaglio, le tecniche dell’assemblaggio hanno inserito una logica nuova nei processi creativi. La scultura, infatti, non costruisce lo spazio, ma lo evoca: è attraversabile sia con lo sguardo sia con il corpo, e si completa con l’aria che le circola attorno e lo spazio con cui si trova a interagire. Il tema di fondo rimane l’alleggerimento visivo della scultura e la sua possibilità di relazione spaziale attraverso un “disegno” tridimensionale. Seguendo il solco della scultura “di linea”, di forte concentrazione lirica e per vocazione antimonumentale, la scultura di Spagnulo cerca un rapporto con l’architettura e mostra l’intenzione di delineare un limite, di tracciare i confini strutturali di uno spazio virtualmente abitabile. Non si tratta di una scultura “fragile”, per quanto la prima impressione possa dare l’idea di qualcosa di effimero rispetto alla solenne gravità della statuaria: il perimetro che delimita le sue “domus”, il tronco arboreo dei suoi “riverberi”, è un limite solido, su cui virtualmente si può costruire un “edificio” e completare il volume pieno di cui la sua opere ci ha lasciato come uno scheletro. Eppure, pur con un occhio attento a certe istanze dell’avanguardia aniconica, o a quelle tendenze dell’astrazione su base geometrica, la sua opera non ha mai la durezza intransigente dei veri “costruttori”, perché nei profili irregolari delle sue strutture in ferro si inserisce un elemento inquieto e intemperante, un guizzo che provoca una tensione interna drammaticamente connotata. Valdi, in fondo, ambisce alla geometria, ma non cede alla disciplina costruttiva, ingaggiando un vero e proprio corpo a corpo con il metallo piegato che ha un valore esperienziale e liberatorio, come ci fosse una tensione più forte e viscerale che cova sotto la cenere, e che nella scultura sfocia nell’andamento irregolare delle piegature.
Allo stesso tempo, in fase di allestimento, Valdi Spagnulo ragiona da sempre sul rapporto fra l’opera e la sua ombra proiettata sulla parete, che talvolta diventa vero e proprio raddoppio in una dimensione effimera e impalpabile, enfatizzando linee e intrecci, nodi e punti di crescente tensione drammatica.
A partire dagli anni Duemila irrompe poi nella sua ricerca un inedito elemento atmosferico: è il dato iconografico che dà un risvolto evocativo alla sua via all’astrazione, che gli consente di assimilare in maniera originale una serie di elementi presi a prestito dalle precedenti generazioni della scultura di linea. È facile risalire la china fino a Melotti come capostipite, con più attenzione per gli accenni lirici della scultura del dopoguerra, che a Milano circolava molto fra anni Ottanta e Novanta, e che molto aveva da dire per certe ricerche visuali di quella stagione. Ma da solo Melotti – anche il più narrativo e romantico inventore di filiformi figure e primordiali simboli di natura ritagliati in lamina di metallo – non basta per capire questa ricerca, anche per il fatto che in quegli anni, prima della definitiva conversione alla scultura, Valdi era ancora esclusivamente pittore.
Bisogna guardare dunque più vicino, senza distinzioni troppo nette fra quanto possa provenire dalla storia della scultura e quanto possa esser stato preso a prestito da esempi pittorici, e pensare alla linfa che poteva aver tratto facendo per esempio una mostra a due con Gabriella Benedini, al tempo delle prime “arpe” dell’artista cremonese. Una certa idea di assemblaggio, con inserti che paiono piuttosto parenti di un vero e proprio collage, potevano avere una sintonia con quell’esempio frequentato così da vicino. Oppure, in tempi più vicini, le lastre di vetro ondulato issate come icone da Giancarlo Marchese potevano aver suggerito una strada per inserire nella scultura un’idea di trasparenza e di leggerezza, una rifrazione luminosa fatta di riflessi sulla superficie. Al vetro, però, Valdi Spagnulo preferì sostituite il plexiglass, e dare al contempo una diversa ragione e funzione visiva alla trasparenza in scultura.
Accanto a questi, poi, ci sono i pittori che hanno costituito un punto di riferimento per lui. Ne sono conferma le mostre a due tenute nel corso della sua carriera con artisti di una generazione precedente, a partire da quella con Gabriella Benedini, per poi arrivare a quelle con Mario Raciti (2018) e con Enrico Della Torre (2022).
Una suggestione per leggere le sue Domus, invece, viene dalle Lettere a Palladio di Giuseppe Santomaso: grandi quadri magri di materia, diafani, giocati su una linea unica che andava a tracciare il profilo di un edificio, o almeno il perimetro di uno spazio, con un inserto di colore sospeso (la lettera appunto) applicato a collage o dipinto come qualcosa di sovrapposto alla struttura. Dipinti come questi erano stati tema di una mostra del pittore veneziano negli anni Ottanta che Valdi vide, riportandone una forte impressione che sarebbe riemersa molti anni più tardi. Del resto, viene quasi naturale, pensando al suo lavoro, far affiorare nella memoria esempi che pertengono al campo della pittura, e in modo particolare quella pittura in cui l’intreccio narrativo è dato da una sovrapposizione di linee e di andamenti lineari che l’occhio può seguire passo passo. È la lezione di Osvaldo Licini, dagli anni de “Il Milione” a quelli degli Angeli ribelli, che da quella china risale, per limitarsi a esempi lombardi, a Valentino Vago ed Enrico Della Torre: una pittura in cui si legge, oltre al soggetto, l’andamento della mano che traccia un percorso sulla tela e che da quella fluidità di gesto trae con naturalezza il profilo di un’immagine o di una figura. Per Valdi questo si traduce però in linea di ferro: la piega, come è stato detto più volte, viene fatta a mano, torcendo la materia in modo da darle un guizzo di vita, con un progetto di costruzione progressiva dell’immagine che si fa nel momento stesso della sua realizzazione pratica e che, un po’ alla volta prende forma. Valdi stesso ne parla in questi termini: comincia con una piega, poi verifica qualche reazione ha il metallo nel momento in cui viene scaldato e sollecitato con la fiamma, piegandosi in maniera non sempre prevedibile: con la piega quale indicazione di partenza, poi pensa a legare le parti, ad assemblarle fra loro, ad aggiungere parti, a inserire frammenti di plexiglass che, come la “lettera” di Santomaso, fluttuano in uno spazio incerto. È proprio in questa accezione che si può intendere la scultura come “disegno” che si articola sulle tre dimensioni e crea un itinerario evocativo.
Il dialogo con questi punti di riferimento, come nel caso dell’abbinata fra la pittura di Mario Raciti e la scultura di Valdi Spagnulo, è asincronico ed atemporale: sono le ricerche di due artisti anagraficamente distanti che si seguono e si stimano da tempo, e che trovano un momento di convergenza e di dialogo fra generazioni all’insegna di un condiviso orizzonte di valori artistici e visivi. Il dialogo metalinguistico che viene a instaurarsi fra i due, in fondo, si basa su un’idea di linea non tanto come elemento fondante di una grammatica visiva, ma come vero e proprio strumento di narrazione: la linea è tema e protagonista sia della pittura di Mario sia della scultura di Valdi come indicatore di uno sviluppo e articolazione che struttura il campo creando una tensione al suo interno. Che questo sia poi una struttura dimensionale che si misura con il vuoto e con la necessità di delimitare uno spazio, o bidimensionale e con la necessità di smarcare la traccia pittorica da eventuali confusioni con la scrittura, entrambi invitano l’occhio del fruitore a compiere un itinerario palmare sulla superficie, a seguire passo passo il dipanarsi del segno nel suo svolgimento. In questa accezione, l’itinerario è un racconto (o una melodia): qualcosa che comincia in un punto, ha uno svolgimento e una conclusione, e che mantiene quella struttura anche quando il significato si presenta incerto, lasciando volutamente degli ampi margini di interpretazione e, non ultimo, di emozione.
Anche fra Enrico Della Torre e Valdi Spagnulo passava una generazione, ma un filo sottile teneva insieme il dialogo fra di loro. Ad accomunare le due esperienze, specialmente le opere recenti di Valdi e la stagione estrema del pittore cremonese, è un debito nei confronti del collage, e dell’approccio mentale al problema dell’immagine dato dall’assemblaggio di sagome e materiali. Per Della Torre, in particolare, il passaggio cruciale avvenne nei primi anni Ottanta secondo la lezione del “papier decoupée” matissiano: frammenti di carte colorate in contrappunto con pastello e campiture piatte lo avevano allontanato dal mondo surreale e notturno delle fantasmatiche figure acquatiche degli anni Settanta, in favore di una compattezza architettonica. A monte, per lui come per Valdi, c’era l’idea di un’immagine costruita per somma di frammenti, che nel primo caso andavano a ricomporsi in una struttura compatta, mentre in scultura davano spazio a una ulteriore apertura e articolazione di elementi sospesi nello spazio. Per frammenti, infatti, Valdi va a introdurre nel telaio metallico inserti di altri materiali, avendo cura di preservare quell’impressione di una scheggia acuminata di realtà su cui si sono depositate le tracce del tempo: sagome irregolari dal profilo aguzzo, in cui, prendendo a prestito una felice espressione della critica, si potrebbero recuperare “spessori di memoria”. Anche questo non fa di lui un “costruttore”, per quanto i suoi telai siano studiati accuratamente negli incastri e nelle giunture come si confà a una scultura che può essere smontata e rimontata ad ogni installazione: sul metallo e sul plexiglass, infatti, interviene con incisioni più o meno superficiali, graffi e scheggiature leggere che modificando l’effetto riflettente della superficie. Allo stesso tempo, nascono da una logica non diversa da questa i suoi collage di carte dipinte, trattate per sembrare lamiere in un continuo scambio di ruoli fra illusioni di materiale e tecniche di montaggio: il palinsesto di carte verniciate e combuste, strappate sui bordi e sottoposte a invecchiamento, conserva la leggerezza di elementi fluttuanti sullo sfondo, ma anche l’impressione di un reperto del Costruttivismo riemerso da uno scavo.
Eppure, la funzione del frammento, incastrato sul telaio o applicato all’estremità di una linea dall’andamento sinuoso, è squisitamente narrativa: da lontano resta memoria dei “mobiles”, che a loro volta nascevano da una fantasia ludica intorno a Mondrian, ma anche di certo surrealismo condensato dai pittori della generazione del Trenta.
Anche nel momento più austero e costruttivo, infatti, Della Torre non aveva dimenticato i toni e gli accordi luminosi del mondo naturale: le terre si armonizzano con i verdi e gli azzurri, mantenendo un pregnante significato analogico, tenendo salda nel pittore la memoria del paesaggio della bassa cremonese natia e delle cime valtellinesi del suo rifugio di riposo. I formati panoramici, lunghi e stretti, sono rimasti poi quelli di una pittura astratta concepita come un paesaggio, seppure a un grado di sofisticazione più elevato. In Valdi era accaduto qualcosa di analogo, e non solo per la scelta di inserire degli elementi di colore, ma per una comune sensibilità verso il dato naturale che ora si fa più evidente.
Come suggeriscono due grandi sculture, infatti, il foglio di plexiglass curvato, trasparente o di colore tenue, serviva metaforicamente a Fermare l’aria (2007) o a trattenere un Lembo di cielo (2006). Da questo punto di vista, le strutture in ferro piegato si qualificano come dispositivi messi a punto quali supporto monumentale per questi frammenti di realtà, amplificando l’allusione a quel possibile prelievo dalla natura: un materiale industriale, del tutto artificiale, finiva così per trasformarsi metaforicamente in una solidificazione di materia aerea e impalpabile.
In un secondo tempo, con i primi Riverberi del 2009, sarebbe arrivato poi a una immedesimazione della struttura metallica con una futuribile forma arborea, con foglie e fusti d’acciaio e boccioli di plexiglass trasparente: alla giustapposizione era subentrato l’incastro, l’ibridazione fra materie. Ma soprattutto, Valdi Spagnulo aveva cominciato a ragionare sul tema del riflesso, grazie a delle basi sagomate specchianti: il cielo, ora, anziché essere evocato entrava nell’opera, se la scultura veniva esposta in esterno, o in ogni caso dava l’impressione di uno specchio d’acqua apparso all’improvviso ai piedi della scultura.
Allo stesso tempo, dalla scultura singola l’artista stava passando a una visione a gruppi, avvicinando varie sculture di questa seria fino a creare una selva vera e propria.
Erano, queste, le premesse necessarie per giungere a Contrappunto, la grande scultura ambientale realizzata nel 2018 per la mostra milanese del gennaio 2019: un grande perimetro di lastre d’acciaio, come un grande lago da cui salivano come giunghi lunghi steli di acciaio lavorato, piegato e fresato, con altrettanti inserti di plexiglass colora, come estremità fiorite di questo insieme visionario.
Il colore ha fatto la sua comparsa nella scultura di Valdi Spagnulo proprio in quel momento. Non è quindi un retaggio dei suoi esordi da pittore – quando Gillo Dorfles prima di altri riconobbe nelle sue tele polimateriche e rugginose il preludio della ricerca plastica di poco successiva – ma un’idea nuova. In quell’occasione, infatti, Valdi aveva intuito che poteva sviluppare il proprio discorso espressivo in una direzione nuova, dopo aver già rodato il connubio tra ferro e plexiglass, dando un colore a quelle parti di scultura trasparenti, attraversate dalla luce, che accentuavano l’impressione di leggerezza tipica del suo lavoro incastonandosi come delle gemme luminose.
La scultura di Valdi Spagnulo, infatti, nasce secondo un principio intuitivo, seguendo la vocazione naturale del metallo piegato a mano, conservando la spontaneità di un disegno lineare dallo sviluppo tridimensionale, perimetro di un volume virtuale e attraversabile: una linea ne richiama un’altra, richiede un contrappeso visivo che offra all’occhio un punto su cui sostare alla fine di un itinerario di linea in linea, fra architravi e contrafforti di una “domus” iperuranica. In definitiva, Valdi eredita la tradizione della scultura fatta di assemblaggio, ma vi porta la sensibilità tipica del collage frontale e bidimensionale, e con pezzi di plexiglass colorato e, dal 2023, frammenti di vetro di murano antico che discendono direttamente dal Santomaso delle Lettere a Palladio: un richiamo all’architettura, insomma, ma tradotto con sensibilità pittorica, e con un’allusione iconografica inedita per il suo lavoro. Eppure, con il passaggio dal plexiglas al vetro antico, qualcosa è cambiato, un po’ per via della fragilità di un materiale che non si congede alla manipolazione, e un po’ per quell’elemento cromatico prezioso che porta con sé, come gemma incastonata nel metallo, ma anche come intenso punto di colore che catalizza l’attenzione e orienta la lettura della scultura, arricchendo anche la qualità delle ombre portate di trasparenze e motivi di superficie altrimenti difficilmente percepibili. È chiaro che non poteva che portare a una riassesto degli equilibri interni al campo del telaio, o nelle torsioni aperte dei reverse: il colore saturo e intenso del vetro, infatti, offre un’inedita spinta alla macchina nel suo complesso. Nelle sagome di questi oggetti “trovati”, oltretutto, si riconoscono profili che ricordano soli, lune, o segmenti di mare. Sono dettagli di memoria e di nostalgia, ricordi delle proprie origini pugliesi e di colori nitidamente impressi nella memoria anche dopo decenni trascorsi in Lombardia.
In questo, forse, torna a quel punto il confronto con Della Torre: è una tensione poetica ad animare questi due artisti, e che ha permesso loro di intrappolare nelle loro opere una scaglia di terra o un lembo di cielo.
Ritmi Visibili. Enrico Della Torre / Valdi Spagnulo
Studio Masiero, Milano
I ritmi visibili di Enrico Della Torre e Valdi Spagnulo
Kevin McManus
Come spiegare l’accostamento tra due artisti di due generazioni diverse, dedicatisi perlopiù a due medium diversi, e mai affiancati finora una mostra? Verrebbe da usare un’espressione trita e, forse, un po’ furba: il “colpo d’occhio”. Un fenomeno dato, in primis, proprio dal contrasto tra i lavori di un artista e quelli dell’altro: le superfici di Enrico Della Torre, espanse e al tempo stesso disciplinate da un colore che le trasforma in presenze attive, in soggetti agenti; e le forme tridimensionali di Valdi Spagnulo, che articolano lo spazio disegnandolo, nella loro poetica austerità. Basta un istante, tuttavia, e l’occhio si accorge di come questo contrasto riveli, nella diversità degli strumenti utilizzati, la messa a tema di un comune desiderio: quello di mostrare lo spazio e il tempo, di renderli visibili affrancandoli dalla loro condizione di concetti-limite, di pure misure di grandezza. Ecco allora che i due medium artistici più tradizionali, coinvolti in un confronto secolare basato sulle opposizioni, diventano due lingue diverse per dialogare su un tema comune. Da sempre la pittura lavora sullo spazio isolandone un campione bidimensionale, mentre la scultura lo abita nella sua presenza letterale; entro questa dinamica, i nostri due artisti si sono distinti, in momenti diversi, come esploratori dei confini dei rispettivi mezzi, non con l’intento di infrangerli, bensì con quello di capirne a fondo il funzionamento. E qui si manifesta il secondo punto di contatto: in entrambe le ricerche vediamo lo spazio apparire, come espressione di una natura naturans squisitamente artistica: in Della Torre, attraverso un colore che non agisce solo per opposizione, ma che acquisisce una propria presenza spaziale, un’aura che affranca la forma dalla superficie; in Spagnulo attraverso una forma scultorea che sembra registrare la traccia del suo processo realizzativo, mostrandosi non come configurazione chiusa, ma come “momento” di un farsi che potrebbe continuare, ma che viene catturato in un attimo di estrema fotogenia. Per Della Torre questo spazio che appare non lo fa mai come articolazione figura/sfondo (il che sarebbe peraltro reso impossibile dall’intensità dei suoi neri), ma piuttosto come un’animazione musicale della superficie, un ritmo interno alla forma che suscita nello sguardo un’intuizione temporale. Proprio il ritmo – parola chiave nel titolo della mostra – costituisce il terzo, decisivo punto di contatto: anche Spagnulo infatti, nei suoi disegni nello spazio, suggerisce una successione di battere e levare, forse nella convinzione che spazio e tempo, seppur distinti nella teoria, si mostrano sempre, nella carne dell’opera, come due facce della stessa medaglia. Non è un caso, certamente, che queste affinità poetiche trovino espressione in un linguaggio misurato e concentrato, atto a dire tanto con il poco. È proprio nel silenzio, nella pausa, nell’intervallo che il ritmo dello spazio può rendersi manifesto.
Abita L’uomo. Patrizia Bonardi Valdi Spagnulo
BACS – Leffe (BG)
Poeticamente, e su questa terra
Kevin McManus
«Pieno di merito, ma poeticamente, abita
l’uomo su questa terra».
Questi versi attribuiti al poeta romantico Hölderlin sono alla base di un saggio assai noto (1951) di Martin Heidegger, uno dei filosofi più impegnati sulla questione dell’abitare. Questo termine, tornato in auge in ambito filosofico e sociologico negli ultimi decenni, designa per Heidegger la modalità di esistenza più tipica, specifica dell’uomo in rapporto al mondo e alle altre creature. L’«esserci» dell’uomo, insomma, avviene sotto la forma e secondo le categorie dell’abitare. L’uomo non si limita a stare nel mondo, ma lo riempie di sé, con una scala di interventi che vanno dalla pura speculazione filosofica fino alla modificazione (talvolta, come è noto, anche distruttiva/peggiorativa) del mondo stesso, inteso sia dal punto di vista fisico, come ambiente, etc., sia come insieme complessivo di tutte le interazioni possibili, tra umano e umano, tra umano e altri esseri viventi, tra uomo e cose.
Aggiunge il filosofo, sulla scorta del testo di Hölderlin, che questo abitare non può caratterizzarsi se non per la sua «poeticità». L’abitare è poetico, dunque; per la precisione, il termine tedesco usato dall’autore è «dichterisch», più specifico («proprio del poeta») rispetto al generico «poetisch». L’esserci dell’uomo nel mondo non è concepibile se non nei termini del poetico. È proprio l’avverbio «poeticamente» a fare da collante tra l’uomo, il suo spazio, e l’abitare che regola il rapporto tra i due. Non solo, ma Heidegger tiene notoriamente a precisare come sia appunto questo «dichterisch» a far sì che questo spazio, la sede materiale dell’abitare dell’uomo, non sia in un mondo di fantasia o di puro intelletto – come un’accezione più ingenua di “poesia” potrebbe far pensare – ma «su questa terra». Esistenzialista ante-litteram, Hölderlin parte dal radicamento dell’uomo sul pianeta, rispetto al quale la poesia non è una fuga, ma al contrario una garanzia. In un passo celebre, Heidegger individua l’essenza di questo «poeticamente» nella facoltà umana, e solo umana, di «misurare»; una misura che non è banalmente quella degli spazi fisici della Terra, né quella fantasiosa dei cieli e degli spazi della divinità, bensì quella della distanza tra le due dimensioni, del «frammezzo» tra cielo e terra. L’uomo insomma è l’essere – l’unico ente – capace di concepire il proprio rapporto con l’infinito, e quindi a prendere coscienza della propria finitezza, della propria collocazione nel mondo. L’uomo-abitante-poeta si distingue quindi dalle altre creature per la sua capacità di riempire di senso gli spazi del suo esistere, di abitarli anziché occuparli, insomma di trasformare delle semplici porzioni di spazio fisico in luoghi. È il senso a caratterizzare, in ultima analisi, il rapporto dell’uomo con lo spazio che abita.
Mi sono dilungato più del solito in questa premessa teorica; non solo perché è scelta forte e orgogliosa, da parte del BACS, quella di far dialogare le opere d’arte con testi fondamentali di varie discipline (tra cui la filosofia) collegate alla sociologia e ai suoi temi. Ma anche perché questa dimensione dell’abitare (e dell’abitare poeticamente) è a mio avviso un evidente punto di contatto tra due modi operandi come quelli di Patrizia Bonardi e di Valdi Spagnulo, di per sé assai distanti per materiali, linguaggio e strategie di presenza visiva. L’opera d’arte, se è tale, è sempre una modalità poetica di attivazione di un spazio, che si tratti della superficie di una tela, dell’area tridimensionale circoscritta e chiusa di una scultura tradizionale, dell’ambiente di un’installazione o addirittura della piazza, del territorio, dell’intero edificio interessato da un intervento di arte pubblica. Tutte le forme d’arte lavorano sul senso, vanno a costituire un luogo, e pertanto rendono giustizia alla prerogativa umana dell’abitare. E tuttavia, proprio i versi di Hölderlin e le parole di Heidegger hanno cementato nella mia mente l’idea di un possibile dialogo tra i lavori di questi due artisti. Parlo specificamente di “dialogo”, perché i presupposti me lo suggeriscono: il dialogo avviene tra diversi (anche solo per la prospettiva occupata nel momento dell’interazione) che si interessano a un argomento comune. Il dialogo è lo sforzo fatto da due interlocutori affinché entrambi siano modificati dal pensiero dell’altro su un tema specifico. E il tema, qui, è proprio quello dell’abitare. Per dirla in termini netti, se tutta l’arte implica il discorso sull’abitare, quella di Patrizia Bonardi e Valdi Spagnulo lo rende esplicito, lo mette a tema con una sinteticità e un’apertura di senso tali da garantire, appunto, la dimensione del dialogo nello spazio comune di una mostra. Se Hölderlin era per Heidegger il «poeta del poeta» (ossia il poeta che illuminava l’atto stesso del poetare), possiamo dire che Bonardi e Spagnulo siano due «artisti dell’artista».
La differenza, sostanziale ma fertile, tra i due approcci sta nel punto specifico su cui rispettivamente insistono nel rendere esplicito l’elemento dell’abitare. Potremmo dire, con un’utile approssimazione, che cambia la quantità di elaborazione simbolica, o addirittura che cambia la figura retorica prediletta da ciascun artista: la metafora per Patrizia Bonardi, la sineddoche per Valdi Spagnulo. L’una significa l’abitare attraverso una rappresentazione simbolica di temi connessi esplicitamente all’abitare contemporaneo; l’altro lo significa proponendo esempi reali, praticabili, effettivamente (e poeticamente) abitabili di spazio. E seguendo la linea di sviluppo delle figure retoriche (scelta fuori moda, forse, ma a mio avviso efficace), la metafora comporta che l’apertura di senso, la polisemia dell’opera avvenga per associazione, per contrasto, per aggiunte successive, mentre la sineddoche è aperta per la sua pura potenzialità, per la sua dimensione al tempo stesso astratta ed estremamente concreta.
Prendiamo due opere che nell’allestimento della mostra occupano uno spazio di dialogo privilegiato: Abnormal Waves (2019) di Patrizia Bonardi e La Domus di Persefone (2015) di Valdi Spagnulo. La prima, pensata appositamente per la mostra, affronta la questione dell’abitare dal punto di vista specifico dell’habitat, delle conseguenze ambientali e sociali dell’antropizzazione del pianeta. Le onde sono «anomale» per la loro matericità disturbante, per l’ostacolo cromatico che impedisce loro di corrispondere tanto all’iconografia consolatoria della “marina” quanto a quella romantica, sublime, del mare in tempesta. Effetto, quest’ultimo, creato anche dalla suddivisione in pannelli di lunghezza e larghezza regolari, disposti quasi a mo’ di griglia astratta: è proprio questa scelta, questo distacco critico creato a dispetto di superfici che, di per sé, sarebbero “immersive”, chiamerebbero al tatto e al coinvolgimento totale dello sguardo, a garantire all’opera quell’apertura di senso che le permette di entrare in dialogo sul tema dell’abitare, di tornare insomma alla sua accezione complessiva. Rispetto alla possibilità della chiusura simbolica data dalla metafora “risolta”, l’allestimento crea un’apertura entro la quale il discorso ecologico-ambientale diventa uno dei possibili stimoli sulla questione dell’abitare umano. La Domus di Persefone, viceversa, analogamente ma in modo più serrato rispetto all’Angolo bianco (2014), parte da un’accezione più letterale di “spazio” e di “abitare”, fornendo un archetipo di spazio abitativo, un esempio, una sineddoche appunto. L’opera è percorribile, abitabile, si offre alla presenza del corpo dell’osservatore, oltre che al suo sguardo. Anziché rappresentare l’abitare, ce lo presenta, in una modalità che è al tempo stesso specifica, locale, caratterizzata, ma anche aperta, eternamente potenziale. È un abitare che nella sua incompletezza finisce per significare tutti gli abitare possibili. I versi di Hölderlin echeggiano parimenti in entrambe le opere, ma mentre Bonardi sembra porre l’accento sul «su questa terra», Spagnulo si concentra in maniera specifica sul «poeticamente»: il suo spazio è uno spazio circoscritto, misurabile, e al contempo illimitato, possibile; è un qui e un altrove insieme. La stessa collocazione dell’opera, che parte dalla parete e si diffonde, quasi come se compisse un movimento continuo, sul pavimento, corrobora questa dimensione poetica: una poesia che – proprio come la poesia scritta dal poeta – si caratterizza in quanto tale per il suo essere progetto (il “disegno” a parete) e spazio reale (la dimensione orizzontale) al tempo stesso.
Chiudo con un ulteriore elemento di confronto tra i due artisti, a mio parere profondamente connaturato al primo. Il poetico, nella sua etimologia greca, è connesso all’idea del fare. È poetico ciò che è fatto, prodotto, costruito in modo tale da comportare una riflessione sull’atto stesso del fare, produrre e costruire, sulla sua posizione nella mappa delle cose umane. Ecco, tanto Patrizia Bonardi quanto Valdi Spagnulo amano mostrare il fare nei loro lavori: le forme leggere, inizi di linee possibili, di Valdi rivelano in realtà la potenza di un gesto scultoreo che è fatica, tempo, volontà di informare (abitare) la materia. Le superfici di Patrizia, dal canto loro, recano le tracce della loro fattura, talvolta in senso quasi rituale (si pensi alla tecnica, assai usata dall’artista, dell’avvolgimento in bende), talvolta nel senso di un’impronta che si fa indice della presenza umana (dell’abitare) nell’opera, come nei Fiery Trees (2019) con i loro “occhi” tagliati nella superficie. Segni diversi, che si ritrovano nella ricerca sul senso, sull’esserci, sul privilegio di esserci poeticamente (artisticamente).
Linee. Mario Raciti Valdi Spagnulo
Villa Arconati Bollate (MI)
Premessa.
La mostra propone un dialogo fra artisti di generazioni differenti attivi a Milano: Mario Raciti (Milano 1934) e Valdi Spagnulo (Ceglie Messapica 1961). Non dunque due artisti assortiti con due mostre nello stesso luogo, ma due linguaggi chiamati a provocare un cortocircuito formale e poetico entro la cornice storicamente connotata di Villa Arconati-FAR. In questo modo si intende portare avanti la linea sperimentale che ha contraddistinto l’attività di Espace Kiron a Parigi e, ora, a Castellazzo di Bollate: l’arte contemporanea, all’interno di una cornice già nel suo passato ricca di opere d’arte e ancora intrisa del suo antico fascino di Villa di delizie, dà una nuova vita sperimentale e non canonica agli spazi di una dimora storica. La stessa dichiarazione che i due artisti hanno voluto rilasciare in occasione di questa mostra è un segnale chiaro di questa intenzione di valorizzare ricerche artistiche che hanno difeso una indipendenza e autenticità di ricerca non disposta a piegarsi alle mode culturali del momento.
Accomunati da una ricerca sviluppatasi intorno alle possibilità di un racconto astratto attraverso la pittura (Raciti) e la scultura (Spagnulo), il dialogo che la mostra cerca di stabilire fra loro nonostante la distanza di medium artistico vuole evidenziare una riflessione intorno al tema della leggerezza, sia essa ottenuta attraverso uno smagrimento del segno grafico, purificato da qualsiasi elemento non necessario che dia ridondanza retorica alla raffigurazione; o che sia il frutto di una struttura metallica piegata a mano e costellata di interventi luminosi ottenuti grazie all’ibridazione di metallo lucidato e plexiglass, che per via di trasparenza arricchisce la qualità luminosa della scultura.
Su questa via, i due artisti accompagnano il visitatore in un viaggio poetico all’interno di uno spazio via via più rarefatto e sottile, aulico e misterioso, incerto nei confini ma forse proprio per questo capace di toccare le corde esistenziali, come se la linea, con il suo andamento sinuoso e danzante, potesse dare un po’ di quiete metaforica ai tortuosi percorsi di vita e di esperienza del mondo moderno.
Dichiarazione degli artisti.
Questa esposizione crediamo abbia un senso particolare. E’ un tratto di catena, anelli tra generazioni che son nate attuali e propositive, ma vivono nascoste, in un ambito più interno ,fatto di tensioni e interrogativi, rispetto alle più celebrate “ufficialità”. In questa nostra particolare catena a monte ci sono altre maglie (Licini si dice per Raciti, o ancor più certo simbolismo da Böcklin a Max Klinger; Melotti, Fontana per la forma informe, ma pulita e sapida, di Spagnulo che, non nega più attuali e contemporanei sapori come Uncini, Staccioli, Almagno). Ma soprattutto, nell’ambito di un non allineamento a tante ricerche “fredde” dell’ora, una volontà profonda di libertà e di visionario senso dell’“assenza”, come forse qualcosa da evocare che oggi la storia non permette e domani forse potrà. Le nostre opere, remote e attuali, allusive e nascoste, necessitano di attenzioni dirette che coinvolgano più sensi possibili: non si possono raccontare per telefono. Altre catene come la nostra, di contenuti differenti, ma sempre vicine alle emozioni e alle complessità umane, serpeggiano nelle strettoie che la storia ci ha riservato. Speriamo che eventi di questa natura continuino con nuove generazioni.
Mario Raciti e Valdi Spagnulo
Mario Raciti / Valdi Spagnulo. Appunti di un dialogo.
Lorenzo Fiorucci e Luca Pietro Nicoletti
I. Il dialogo fra la pittura di Mario Raciti e la scultura di Valdi Spagnulo è asincronico ed atemporale: sono le ricerche di due artisti anagraficamente distanti che si seguono e si stimano da tempo, e che trovano un momento di convergenza e di dialogo fra generazioni all’insegna di un condiviso orizzonte di valori artistici e visivi. Il dialogo metalinguistico che viene a instaurarsi fra i due, in fondo, si basa su un’idea di linea non tanto come elemento fondante di una grammatica visiva, ma come vero e proprio strumento di narrazione: la linea è tema e protagonista sia della pittura di Mario sia della scultura di Valdi come indicatore di uno sviluppo e articolazione che struttura il campo creando una tensione al suo interno. Che il campo sia poi una struttura dimensionale che si misura con il vuoto e con la necessità di delimitare uno spazio, o bidimensionale e con la necessità di smarcare la traccia pittorica da eventuali confusioni con la scrittura, entrambi invitano l’occhio del fruitore a compiere un itinerario palmare sulla superficie, a seguire passo passo il dipanarsi del segno nel suo svolgimento, come la linea portante di un’esecuzione musicale. In questa accezione, l’itinerario è un racconto (o una melodia): qualcosa che comincia in un punto, ha uno svolgimento e una conclusione, e che mantiene quella struttura anche quando il significato si presenta incerto, lasciando volutamente degli ampi margini di interpretazione e, non ultimo, di emozione. [lpn]
II. Che la linea sia il carattere di congiunzione che unisce alla distanza due generazioni a confronto come quella di Mario Raciti e Valdi Spagnulo è un dato sostanzialmente innegabile e facilmente riscontrabile. Un dialogo che tuttavia trova una radice comune non tanto nella linea in quanto tale, cioè elemento di geometria primaria o segmento di congiunzione, quanto piuttosto in una ragione più intellettuale che si sviluppa come disegno nella mente degli autori. Per Raciti il segno colorato emotivamente palpitante assume infatti talvolta la necessità di fissare su carta o tela, l’impronta di una visione concentrando lo sforzo nella rappresentazione di quella dinamicità che lo spettro del pensiero offre nello spazio limitato di pochi attimi entro i quali fissare il passaggio mentale dell’immagine. Un’apparizione da catturare con linee appunto come un’epifanica manifestazione di senso. In Spagnulo non sussiste diversamente una visione speculativa quanto piuttosto una riproposizione di una realtà emotivamente percepita, certo rielaborata immaginativamente dall’autore se non addirittura vissuta nella sua manifestazione. La linea in Spagnulo è misura dello spazio, scansione ambientale ritmica con cui confrontarsi e talvolta rivaleggiare con le linearità naturali. In entrambi i casi si ricorre alla possibilità espressiva della linea, alla sua versatilità formale, approdando ad una dimensione lirica e vibrante attraverso punti luminosi o riflettenti, specchio dell’essere più intimo e personale dell’artista. Linea abbiamo detto, ma non solo. In entrambi gli artisti emerge il dato cromatico; forse più evidente nelle recenti opere di Spagnulo, più duraturo invece per Raciti. Una necessità che definisce la linea grafica del dipinto o della scultura, qualificandone l’impianto in termini emozionali. [l.f.]
III. Più di altre esperienze del suo tempo, la pittura di Mario Raciti sfugge a definizioni e descrizioni: resta un fondo indistinto di cui è difficile dare una traduzione in termini verbali. L’artista stesso, in fondo, rispondendo a un’intervista prendeva una posizione netta per un certo modo di intendere le arti visive come uno specifico linguistico che non poteva essere riferito in altro modo che tramite l’esperienza della vista: la vera opera d’arte, ha sempre sostenuto Mario, non si può descrivere telefonicamente, perché questo significherebbe che l’elaborazione artistica si è spostata su un piano verbale e che non è più necessaria la fruizione dal vivo per poter visualizzare mentalmente l’esito formale. In altri termini, la pittura di Raciti sfugge a qualsiasi possibilità di restituzione ekfrastica, che non vuol dire tuttavia che non sia adatta a stabilire un dialogo con la letteratura e la poesia. Al contrario, anzi, con questa si stabilisce un dialogo emotivo che si muove sul crinale di un sentimento indistinto ed evocativo, in cui le cose appaiono in una forma stilizzata fino a sembrare graffiti. In una parola, Mario Raciti è un pittore “ermetico”, in cui la dominante è un flusso istintivo che lascia delle tracce impalpabili. In un primo tempo, nei pieni anni Sessanta, quando una scelta come la sua poteva apparire di reazione a quella pittura di impasti densi e modellati su tela della generazione precedente, il suo discorso era di puro gesto, quasi un automatismo surrealista: iniziava in un punto con un brano grafico, poi con uno scarto improvviso mutava direzione e in questo modo, un po’ alla volta, creava dei percorsi che attraversavano la tela. In un secondo momento, fra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta, aveva messo definitivamente a punto un repertorio di simboli icastici e istintuali, già molto presenti anche nella pittura precedente, che costituivano i punti di riferimento della perlustrazione del campo. Il dipinto, a quel punto, poteva somigliare a una mappa entro cui il pittore aveva tracciato un percorso. Solo fra anni Novanta e Duemila, con l’addensarsi di un impasto bianco di calce più forte, la sua pittura avrebbe modificato ulteriormente il suo statuto. La definizione di uno spazio, già fluttuante, diventa enigmatica: quella che a un primo sguardo può sembrare una indicazione di paesaggio, in realtà è solo una demarcazione della composizione che serve a definire sul piano un “sopra” e un “sotto”. Non si sa bene se i suoi Fiori del profondo e le altre figurazioni che animano le tele venute dopo siano sul punto si sfaldarsi, solarizzate in un contrasto luminoso quasi abbagliante, o se stiano emergendo da un fondo, presentandosi ancora avvinte da una materia calcinosa e in lotta per uscirne. Eppure nel tempo Raciti non è venuto meno a una coerenza e a una fedeltà nei confronti del racconto di linee: in questo campo dai contorni indistinti, che punta a uno sfondato in profondità ma poi si risolve in una tensione sul piano, al fruitore si chiede di seguire la linea come un vettore che conduce a un vertice emotivo: in un crescendo sinfonico, lo sguardo arriva a un apice drammatico e luminoso. [lpn]
IV. Mario Raciti è probabilmente un apolide della pittura, difficilmente racchiudibile in uno schema fisso puramente catalogatorio. Le sue figure, indeterminate già nel titolo Una o due figure realizzate nell’ultimo biennio, si mostrano come visioni pittoriche nate da quel labile confine tra la vigile coscienza e l’onirico inconscio che risiede nei meandri della mente, in cui vita reale e vita immaginata si mescolano in un turbinio di emozioni difficilmente distinguibili, ma da dove emergere in sostanza lo stato d’animo che si mostra nella sua consistenza in quanto stato emotivo, fisico e mentale dell’artista. Lo forzo di Raciti è semmai fissare nell’immediatezza la visione, senza restituire mai i contorni precisi, che sfuggono all’uomo, quanto piuttosto le scie cromatiche, i segni lasciati dal passaggio di un presente fuggevole di quello “stato” che, come ricordava Arcangeli descrivendo il lavoro tormentato di Leoncillo in certe sue fasi individua la trascrizione di uno stato come qualcosa “che c’è e pesa”. All’inverso Raciti fotografa non la pesantezza dello stato d’animo quanto la sua momentanea presenza, l’apparizione di questo. Per l’artista lo stato è qualcosa di dinamico e fuggevole, che c’è stato e che si è fatto ricordo, alleggerendosi in tenui cromie prive di contorni in cui la composizione si costruisce per colpi di luce, scie luminose che illuminano la scena. Il buio è infatti raramente contemplato nelle pitture o nei pastelli di Raciti, non perché non rappresenti uno stato, ma perché lo sforzo di immortalare l’attimo fuggente è più importante dell’oblio dal quale emerge e scompare. I suoi quadri sono infatti in genere su fondi bianchi o chiari e più che segni cromatici sono scie luminose come code di comete transitate, che restituiscono il sapore più che il peso di un’immagine o di una figura. Un focus esclusivo giocato sull’essenza luminosa dai toni chiari che talvolta sembrano trovare comunanza nelle più visionarie opere di Osvaldo Licini, anche se il marchigiano non rinuncia alle cromie intense e forti della propria terra di origine, cromie che in Raciti diventano più tenui e lucenti quasi flash rubati alla psiche, immortalando gli spettri che affollano l’anima, oltre che la mente dell’artista. [lf]
V. Una suggestione per leggere le Domus di Valdi Spagnulo viene dalle Lettere a Palladio di Giuseppe Santomaso: grandi quadri magri di materia, diafani, giocati su una linea unica che andava a tracciare il profilo di un edificio, o almeno il perimetro di uno spazio, con un inserto di colore sospeso (la lettera appunto) applicato a collage o dipinto come qualcosa di sovrapposto alla struttura. Dipinti come questi erano stati tema di una mostra del pittore veneziano negli anni Ottanta che Valdi vide, riportandone una forte impressione che sarebbe riemersa molti anni più tardi. Del resto, viene quasi naturale, pensando al suo lavoro, far affiorare nella memoria esempi che pertengono al campo della pittura, e in modo particolare quella pittura in cui l’intreccio narrativo è dato da una sovrapposizione di linee e di andamenti lineari che l’occhio può seguire passo passo. È la lezione di Osvaldo Licini, dagli anni de “Il Milione” a quelli degli Angeli ribelli, che da quella china risale, per limitarsi a esempi lombardi, a Valentino Vago ed Enrico Della Torre: una pittura in cui si legge, oltre al soggetto, l’andamento della mano che traccia un percorso sulla tela e che da quella fluidità di gesto trae con naturalezza il profilo di un’immagine o di una figura. Per Valdi questo si traduce però in linea di ferro: la piega, come è stato detto più volte, viene fatta a mano, con un progetto di costruzione progressiva dell’immagine che si fa nel momento stesso della sua realizzazione pratica e che, un po’ alla volta prende forma. Valdi stesso ne parla in questi termini: comincia con una piega, poi verifica qualche reazione ha il metallo nel momento in cui viene scaldato e sollecitato con la fiamma, piegandosi in maniera non sempre prevedibile: con la piega quale indicazione di partenza, poi pensa a legare le parti, ad assemblarle fra loro, ad aggiungere parti, a inserire frammenti di plexiglass che, come la “lettera” di Santomaso, fluttuano in uno spazio incerto. È proprio in questa accezione che si può intendere la scultura come “disegno” che si articola sulle tre dimensioni e crea un itinerario evocativo. La scultura, infatti, non costruisce lo spazio, ma lo evoca: è attraversabile sia con lo sguardo sia fisicamente in maniera effettiva. Ciononostante, la sua non è una scultura “fragile”: il perimetro che delimita le sue “domus”, il tronco arboreo dei suoi “riverberi”, è un limite solido, su cui virtualmente si può costruire un “edificio” e completare il volume pieno di cui la sua opere ci ha lasciato come uno scheletro. [lpn]
VI. La scultura di Spagnulo disorienta l’osservatore che si trova d’innanzi ad una insolita soluzione, sia che si tratti di elementi addossati alle pareti, il cui debito con la struttura del telaio pittorico appare forse più intuita che non dichiarata, sia che si osservino le sculture a terra, che sembrano invitare ad una percorribilità senza tuttavia spingere a farlo. In ogni caso la soluzione proposta è lontana da ogni tentativo di interpretare la scultura secondo modalità e canoni consolidati dalla storia, non c’è infatti un evidente intento figurale né in modo didascalico, né descrittivo o evocativo, ma allo stesso modo non ci sono elementi così prepotentemente espliciti che fanno pensare ad una linguaggio puramente astratto o emotivamente informale. Certo vi si colgono rimandi di queste tendenze, soprattutto della gestualità informale, con cui l’artista interviene deformando la linearità del metallo, ma senza un indugio eccessivo che faccia pensare ad una connotazione puramente esistenziale del gesto, quanto piuttosto affiora il tentativo da parte dell’autore di tracciare segmenti mentali che indagano lo spazio in modo disunito e frammentato in cui le linee e i semicerchi metallici si incastrano non più in una rigidità fissa delle linee, ma all’inverso emerge la necessità di Spagnulo di ricercare confini molli malleabili rendendo visibili le debolezze insite nella natura stessa dei metalli svelando fragilità e fluidità di un materiale che solo apparentemente si mostra nella sua solida e forte rigidità. Credo sia questa la componente caratteristica del suo lavoro, certo comune ad altri artisti della sua generazione come Eduard Habicher, Angelo Casciello o Tommaso Cascella anche se, in particolare gli ultimi due, confinati ancora in soluzioni con maggiori rigidità formali.
Si è accennato alle apparenze in riferimento al materiale e al modo in cui Spagnulo svela la natura stessa dei metalli, allo stesso modo, facendo ricorso in particolare nelle ultime opere a superfici specchianti o a trasparenze lucide e opache (queste già dai primi anni 2000), lo scultore cerca un innesto dialogante tra materie così diverse (la plastica del plexiglass e il metallo), ben evidente nell’installazione Contrappunto (2018) che si consuma nel rapporto giocoso tra specchiature riflessi e trasparenze luminose imprigionando dentro l’opera l’immagine dell’osservatore. In questo caso Spagnulo innesca un nuovo dispositivo visivo, che non prevede la percorribilità attiva del fruitore dentro l’opera, o meglio è solo accennata, forse un’illusione, ma ciò su cui si concentra forse non in modo consapevole è nell’inglobare al suo interno il riflesso stesso di chi quell’opera osserva, trattenendone di fatto l’immagine o più poeticamente l’anima. [lf]
Valdi Spagnulo. Contrarappunto
Studio Museo Francesco Messina, Milano
UN LAGO D’ACCIAIO
LA SCULTURA-AMBIENTE DI VALDI SPAGNULO
Luca Pietro Nicoletti
Contrappunto è una grande scultura ambientale realizzata da Valdi Spagnulo nel corso del 2018 e pensata per l’omonima mostra allo Studio Museo Francesco Messina di Milano (gennaio- febbraio 2019) e costruita a partire dalla configurazione architettonica del luogo, in modo da mettere in azione un dispositivo visivo in grado di rapportarsi a uno spazio atipico per i canonici contesti espositivi. Accettando la sfida di una scultura di linea fra- gile in apparenza di fronte all’imponenza del paramento murario, Valdi ha immaginato una sorta di lago di acciaio specchiante, me- moria romantica dell’ironico Mare di Pino Pascali, che si potesse apprezzare affacciandosi dalla balconata del museo sulla cripta sottostante: lo spazio svettante dell’edificio si sarebbe riflesso in questo virtuale specchio d’acqua, che con la sua superficie plana- re perdeva la consistenza del metallo per diventare un diaframma, un appezzamento di superficie luminosa e smaterializzata entro cui proiettare un’immagine. Al suo primo montaggio in un contesto naturale, prima di approdare nel museo milanese, quel piano di lastre quadrate, giustapposte in modo da consentire uno schema di montaggio mobile e adattabile di volta in volta all’ambiente, rifletteva il colore del cielo terso, somigliando a un fazzoletto di cielo poggiato a terra. Lì, più che nel chiuso dell’ex chiesa di San Sisto in fondo a via Torino, risultava amplificata un’inclinazione naturalistica inedita nel lavoro di Valdi Spagnulo, che tira- va qui le fila di un’esperienza trentennale di ricerca intorno alla scultura leggera, fatta di filo metallico che disegna una struttura tridimensionale e in tal modo evoca il perimetro virtuale di un possibile spazio. Dal piano di base, infatti, Valdi ha fatto partire dei lunghi e lunghissimi tubi verticali in acciaio e plexiglass che raggiungono fino a sei metri di altezza: un canneto artificiale, inaspettatamente colorato rispetto alla ricerca condotta fino a quel momento, fissato su una struttura di tubi di acciaio lavorati a fuoco che percorrono il grande specchio come delle nervature torte e vibranti. Ciascuno di questi è una presenza che sviluppa un proprio autonomo andamento narrativo: tubi incastrati fra loro come in un’incastonatura trasparente, altri avvinghiati su un asse portante come un ghirigoro filtrante che si avviluppa in altezza, creando nodi e rapporti armonici interni. Contrappunto, infatti, non è pensata per il colpo d’occhio, ma invita l’osservatore
a una perlustrazione ravvicinata, a scegliere su quale elemento focalizzare la propria attenzione e quale dei percorsi narrativi verticali seguire fino alla sommità. Era lo stesso principio su cui aveva impostato la serie dei Riverberi, una serie di sculture singole montate su una base di acciaio specchiante sagomata, con strutture verticali che vanno ad articolarsi come dei rami di un albero metallico con terminazioni in plexiglass: il metallo riflette la luce in maniera di volta in volta mutevole, creando una moltitudine di riverberi di carattere naturalistico che ne variano la percezione complessiva. Nella grande scultura del 2018, invece, questo effetto è amplificato dal massiccio uso del plexiglass, che trasforma la percezione dell’insieme e ne accentua la rifrazione: si è tentati di dire, anzi, che questo spazio multiplo e artificiale sembra fatto per animarsi con la luce elettrica, che sottolinea quell’impressione di straniamento che pare tratta dalla natura, ma al contempo con un’importante componente artificiale.
Il lavoro sulla materia, in fondo, non si limita all’assemblaggio e alla saldatura, ma riguarda da vicino la “pelle” del metallo e della scultura: Valdi infatti interviene con tagli e fresature che graffiano o lambiscono la struttura e la ravvivano, perché il colpo di fresa sulla pelle dell’acciaio provoca un riflesso, e la sequenza di segni riportati sul metallo danno all’insieme un movimento vitale. Allo stesso modo, sulle cannucce di plexiglass colorato, a volte ulteriormente ornato da bolle interne, interviene a caldo con locali abrasioni o tagli reiterati come dei colpi di sgorbia in xilografia: nel dettaglio, l’immagine si opacizza, ma dando movimento grazie alle continue possibilità di mutazione luminosa.
Del resto la scultura di Valdi, pur con una presentazione di limpida nitidezza formale, è erede dei modi dell’Informale e dei processi immaginativi derivati da questo: come aveva già fatto notare Giorgio Zanchetti in un testo dei primi anni Duemila, il suo lavoro non si limita a immaginare un’articolazione spaziale priva di volume e a darne pratica esecuzione. Valdi, infatti, non è uno scultore che disegna, perché non sente bisogno di un momento progettuale distinto dall’esecuzione operativa, che gli consentirebbe talvolta di demandare parte dell’esecuzione materiale dell’opera: al contrario, egli lavora piegando personalmente la barra di metallo con il proprio corpo, prendendo le misure su di sé come se la scultura fosse impronta di una traccia, di una forma o almeno di un movimento corporeo. Questo è un passaggio necessario perché è l’unico che gli consente di lavorare in presa diretta e di vedere di piega in piega, di saldatura in saldatura come l’opera prenda forma attorno a un’idea iniziale, a un’immaginata
possibilità di restituzione in immagine: segue un’idea, non un progetto che non lascia margini di variazione momentanea. Vista così diventa più evidente il nesso che collega tutto il lavoro di Valdi Spagnulo fino a Contrappunto e riconferma le sue radici in una stagione di neo-informale anni Ottanta, durante i quali egli lavorava con incastri di materia su piani aggettanti rispetto alla superficie di fondo del dipinto. Progressivamente, poi, ha pulito la propria opera procedendo per riduzione fino a rendersi conto, come ha fatto notare Lorenzo Fiorucci, che dietro il piano del- la tela c’era un telaio, e che una volta tolto tutto era proprio da quella struttura, come da una finestra, che si poteva ripartire per un nuovo discorso formale: storcendo il telaio e inserendo al suo interno delle presenze sospese egli aveva dato vita a un nuovo teatrino di tensioni emotive. Il fil di ferro, in quella fase, evidenziava i movimenti interni e gli andamenti del discorso narrativo messo in campo per sottili equilibri in sospensione.
Con il tempo, poi, la scultura ancorata alla parete sarebbe scesa a terra, conquistando la quarta dimensione e indicando profili e perimetri di volumi virtuali non dichiarati, fino alla definitiva espansione ambientale: come uno stagno, lo specchio di acciaio specchiante di Contrappunto chiede al fruitore di entrare con lo sguardo nell’opera e di attraversala, ma allo stesso gli indica una direzione verso cose più elevate. Rispecchiando e duplicando lo spazio, Valdi Spagnulo invita ad alzare lo sguardo e a scoprire così uno spazio potenzialmente infinito. Eppure, come l’artista ripete spesso, lo spazio “è” l’opera.
Opposte Similitudini – Valdi Spagnulo Attilio Tono
Ex Basilica di San Remigio, Parodi Ligure (AL)
Dialoghi di opposte similitudini
Sul fascino che esercita la sempre suggestiva cornice dell’Ex Abbazia di San Remigio a Parodi Ligure poco c’è da dichiarare. Negli anni abbiamo, infatti, imparato ad amarne più i difetti che i pregi; proprio i primi sono diventati gli agenti moltiplicatori del successo delle mostre che qui abbiamo proposto.
La sua storia ordinaria di chiesa di provincia, la sua decadente bellezza, gli spazi “difficili” e “anti-espositivi”, la lontananza dai grandi centri, l’isolamento silenzioso nella natura che la circonda, la personalità forte ed espressiva della sua architettura corrotta dal tempo rendono questo luogo l’ambiente ideale per lasciare che l’arte contemporanea possa finalmente esprimere il valore della sua essenza. Scontrandosi con questo incantevole spazio che, pur abbandonato nella sua ritualità liturgica mantiene forte e deciso il suo carattere spirituale e sacrale, resta ben diverso dagli asettici white cube in cui solitamente questa viene proposta, l’arte di oggi ha modo di costituire un insieme unico che, senza mai stridere tra estetiche del presente e del passato, sa predisporre, con la salda forza delle ricerche e le poetiche dei suoi protagonisti chiamati ad intervenire in questo ambiente, un rituale visivo che fa appartenere l’arte ad un tempo unico e coeso, mai separato e distinto come se qui presente e passato aderissero ad un solo principio temporale.
Il nuovo dialogo con San Remigio vede protagonisti gli artisti Valdi Spagnulo e Attilio Tono, il cui confronto si attiva ed anima sul reciproco scambio dell’individuale idea di scultura: la plasticità imponente e timbrica delle loro opere si muove sul filo di peculiari opposte similitudini, che pur tra tanti apparentamenti, vicinanze e consonanze, ostentano anche visioni opposte, divergenti e lontane. L’alternanza delle loro creazioni negli ambienti della chiesa sconsacrata spinge, quindi, ad un confronto di esperienze da cui, spesso, l’arte di oggi sembra fuggire e che qui, grazie alla forza fisica della loro scultura agita in un luogo che ne potenzia il senso, si acuisce quel positivo impatto sul visitatore che, quasi costretto, ne ricava il valore e la dimensione di senso poetica e lirica.
Queste prolifiche divergenze, va detto, partono da una comune idea di rapporto tra scultura e spazio espositivo, e anche qui la presenza rumorosa della cornice di San Remigio fa da cartina di tornasole: entrambi gli artisti lavorano su forme non asseverative, che non si impongono sul contesto, ma che – d’altra parte – non si limitano minimalisticamente a misurarlo. Lo sguardo di fronte a questi lavori, insomma, non deve essere né assorbito dall’opera, né deviato sullo spazio circostante; piuttosto, deve passare dall’una all’altro, prendendo sempre maggiore coscienza dell’una grazie all’altro.
Da una parte abbiamo l’esile – ma forte – pronunciamento scultoreo di Valdi Spagnulo che, con strisce metalliche, tondini ed elementi di plexiglass, assottiglia l’azione scultorea fino a ridurla quasi a disegno concreto germinante nello spazio. Il suo segno diventa una vera e propria calligrafia scultorea che fluttua, leggera e cangiante, nell’ambiente cui, di volta in volta, si lega, rinnovando, così, sempre la sua presenza e il suo valore.
Gli elementi manipolati da Spagnulo si torcono, destrutturano, si elevano o si comprimono davanti allo sguardo, prolungando l’agire dell’artista oltre il suo stesso intervento fisico iniziale: davanti agli occhi di chi osserva la scultura pare catalizzare le spinte e le tensioni del luogo che l’accoglie e rinvigorisce le proprie energie innervano nel potenziale fisico della materia che, latenti, possono tradursi in un continuo divenire. L’artista si fa interprete di questi processi interni la materia e, lambendo un limite che pare dissolverne la stessa concretezza assottigliandola fino ad ibridarla con le consistenze effimere del plexiglass trasparente che s-finisce nella luce, controlla e doma l’immaginazione incalzante dell’intuizione intrinseca al suo pensiero e viva nel materiale del suo fare. La sua scultura si pone come grafismo concreto nello spazio, dove segno, materia, architettura, pittura, scultura e disegno paiono fondersi nel gradiente primigenio che le accomuna e accoglie tutte assieme.
Non si tratta necessariamente di proporre una sintesi tra le forme espressive; si tratta invece di cercare uno spazio liminale tra di esse, un limbo entro il quale lo sguardo vede frustrata la propria necessità abituale a farsi configurare in una “modalità” corrispondente alla categoria “scultura”, “pittura” o “installazione”. Può sembrare una questione di poco conto, al giorno d’oggi, in un momento in cui le distinzioni mediali non sono più, come un tempo, il problema fondamentale della teoria dell’arte. Tuttavia, Valdi Spagnulo coglie una versione attuale, aggiornata della riflessione sul mezzo: parlare di scultura e di pittura, di disegno e di architettura non significa più dare una definizione più o meno ufficiale dell’oggetto artistico, ma significa costruire una pratica di identificazione con lo spazio. Potremmo definirla, usando la parola in un senso molto preciso, una pratica curatoriale nei confronti dello spazio. Nel limbo visuale creato da questi lavori lo spazio perde la sua designazione di semplice sfondo oppure, al contrario, di elemento costituente l’opera: esso costituisce invece una presenza costante ma cangiante, un limite la cui consistenza fisica appare e scompare a seconda del movimento dell’occhio, a seconda della decisione del fruitore, ad esempio, di vedere le sottili lamine metalliche come la “cornice” di una forma pittorica, o come i pilastri di una forma scultorea; o ancora come le pareti ideali di un contenitore di spazio, di un’architettura insomma.
Nell’opera di Attilio Tono ci si lascia conquistare, al contrario della libera fluidità dei segni di Spagnulo, da quel suo peculiare accento minimale che, ragionato e compiuto, fa assumere a ciascuno dei suoi lavori un’ostentata e sicura perfezione formale. Il gesso e il marmo – interessante in lui il recupero di due materiali canonici ed accademici per la scultura, ma interpretati in chiave assolutamente personale e contemporanea – sono i costituenti primi delle geometrie definite e apparentemente inattaccabili con cui l’artista determina i volumi delle sue opere che acquisiscono, nel loro rigore pianificato, una solida ed inamovibile monumentalità.
Eppure Tono non relega mai la sua scultura entro certezze precostituite, non la vincola ad un immobilismo assoluto dettato a priori, ma, grazie ad un uso peculiare dei materiali e alle rispettive potenzialità, riesce a combinare – e controllare fin che gli è consentito – un elemento come il caso che pare tanto distante dalle sue logiche creative.
La cera in combinazione coi marmi e la pigmentazione ottenuta con il vino in correlazione con i gessi lasciano assumere alla scultura un insperato, quanto inatteso, guizzo vitale che affascina e incuriosisce: i segni ragionati delle scoprono, ora, un nuovo valore che, con l’interferenza intonata di questa matericità alterata e alterabile, intacca l’immacolato candore della scultura rendendola suscettibile di cambiamenti continui e mai né predeterminabili, né ultimativi.
Anche qui come in Spagnulo, ma con ragioni e modalità ben diverse, la scelta poetica (dei materiali, in questo caso) altera la collocazione mediale delle opere, e di conseguenza i caratteri del loro rapporto con lo spazio. La natura della forma scultorea come forma tridimensionale destinata alla pura contemplazione, una natura che la rigorosa geometria di Tono sembrerebbe lasciar trasparire, è sensibilmente “macchiata” dagli interventi materici, che ne mettono in discussione la perfezione platonica, facendola ricadere nella dimensione dell’esperienza concreta (pochi materiali sono tattili come la cera, e sensorialmente stimolanti come il vino) e dell’oggetto. Quest’ultimo termine ha avuto ampio utilizzo e fortune alterne nella storia dell’arte, ma ci limitiamo qui ad un’accezione che, ancora una volta, concerne il rapporto con il contesto e con il fruitore: oggetto in quanto forma concreta che, oltre a mostrarsi nella sua evidenza visiva, suggerisce un uso, potenziale o, in questo caso, già avvenuto e cristallizzato. Le pure forme di partenza acquistano così gli indizi e le prove di una storia, di un incontro con l’artista non in quanto artifex che si eclissa una volta plasmata l’opera, ma in quanto partecipe vivo e incarnato di una dimensione quotidiana a cui la forma stessa appartiene, e la cui storia, appunto, va a intrecciarsi a quella, altrettanto piena di testimonianze e indizi, del contesto espositivo, che tutto comprende e che con tutto si relaziona.
Due artisti, dunque, che nella differenza dei materiali, delle forme e delle categorie espressive concepiscono entrambi il loro lavoro come pratica “architettonica”, ossia come costante riconfigurazione dell’esperienza dello spazio. E che con doni differenti contribuiscono in modi complementari ad arricchire la singolare storia delle mura di San Remigio.
M.Galbiati – K.Mc Manus
Domus mentis
Studio Masiero, Milano
“Le sculture che Valdi Spagnulo ha realizzato per questa mostra abitano lo spazio espositivo come dimore del pensiero avvolte da umori tangibili, essenziali forme metalliche che trasfigurano l’ambiente con nuove intersecazioni.
Le opere si appropriano del luogo come sintesi mutevole di scultura-pittura-architettura, connessioni di uno stesso accadere della forma, mezzi di conoscenza interiore del mondo reale, aperto ad altri destini, altre soglie accessibili.
Per Valdi si tratta di far coincidere molteplici potenzialità racchiuse nella “domus mentis”, metafora simbolica per indicare il luogo in cui la scultura interroga se stessa, colloquia con il sogno sospeso del possibile, crinale del pensiero attraversato dalle antinomie del visibile. Il pensiero del vuoto è abitato da sconfinamenti, costruzioni ambivalenti inglobano parete e pavimento disegnando traiettorie distorte e diramate in tutte le direzioni, dentro e fuori i perimetri bidimensionali e gli spessori aggettanti delle tensioni plastiche. La visione dell’istallazione spinge lo spettatore a farsi partecipe delle difformità spaziali che l’artista ha stabilito attraverso l’inquieta disciplina del fare scultura, dimensione tattile che proietta le linee-forza oltre l’ordine logico, verso misure visionarie. Nella “domus mentis” si avvertono perimetri slittanti, torsioni prospettiche, sbilanciamenti e dilatazioni, ribaltamenti e calcolate disarmonie che annullano i canoni spaziali. Le incursioni plastiche rendono apprensivo lo sguardo, lo disorientano per sperimentare lo spaesamento e l’enigma, desiderio di addentrarsi nella dimensione dell’ignoto, esperienza non definibile ma, volta per volta, attuabile. Le creazioni metalliche evocano lo schema della casa vista dall’alto, lo sviluppo dinamico assonometrico delle architetture primarie, origine di tutti i luoghi possibili, tema dominante che rimette continuamente in gioco i suoi assunti. La geometria costruttiva è un territorio mobile, in bilico tra progetto e invenzione, tra astrazione segnica e peso corporeo dell’aria, infatti la percezione virtuale si congiunge con l’immagine concreta, il nero e il bianco si aprono alle sollecitazioni cromatiche, le cangianze del metallo seguono il ritmo spezzato delle articolazioni. Valdi non rinuncia mai all’incanto del colore, ama inserire tubicini di plexiglass azzurrato di varie lunghezze, trasparenze che vibrano lievi, evocazioni di luce liquida che s’insinua per contrasto nella fermezza del metallo, magica alchimia che amplifica e alleggerisce il peso impositivo del ferro. A questo si aggiungono schegge opalescenti e reperti di colore industriale, frammenti che contengono bagliori anneriti, macchie disgregate d’azzurro e di rosso, tracce di casualità necessarie al respiro della scultura che travalica se stessa vibrando nell’aria.”
Claudio Cerritelli
La Via Lattea
Galleria Gli eroici furori, Milano
Studio Gabelli, Milano
“Lune, astri, corpi celesti. Una Via Lattea dove, come nella relatività einsteiniana, le grandi masse rallentano il tempo e curvano lo spazio. Le opere di Valdi Spagnulo sono come corpi celesti curvi, freddi di metallo e caldi di plexi, trafitti da altri corpi che ne soppesano l’equilibrio. Forme leggere a tratteggiare spazi possibili oltre il visibile e il concreto. Universi desueti, armonie ancestrali. Forse. Nell’immaginario appaiono storie, vite, navicelle che ci trasportano su pianeti sconosciuti, notti con molte lune che si inseguono. E noi desiderosi di queste incertezze…dal mare di nulla e dalle vaghe stelle inizia il sapere. I blu, gli azzurri, i corpi cerulei che stanno dentro le opere di Spagnulo e spesso ne fuoriescono tronchi, quasi come piccoli tubicini per l’ossigeno ci permettono di respirare. Anche se siamo lontani. Molto lontani. A ben più di mille miglia dalla Terra”.
Silvia Agliotti
“…Con il ciclo degli “Sferoidi” (2009-2014) si entra in un’altra atmosfera ambientale, si tratta di molteplici pezzi concepiti come una Via Lattea, movimento di frammenti metallici che passano davanti agli occhi dopo essere stati modellati dalle mani dell’artista, esplorazione di luoghi cosmici attraverso i segni audaci della scultura. .,.In entrambi i cicli di “Sferoidi” conta l’efficacia del procedimento istallativo, il respiro dialettico della composizione, il modo di sentire lo spazio come campo aperto alle sollecitazioni del luogo espositivo. E’ importante il fatto che -ogni volta- l’artista può ricreare la disseminazione dei pezzi inventando nuovi equilibri all’interno del ritmo trasversale che avvolge la parete: scia lattiginosa, sciame in divenire che sprigiona sensazioni fisiche e mentali, pensieri ed emozioni libere di provocare un senso di smarrimento nelle galassie dell’immaginario.”
Claudio Cerritelli
(dal catalogo “Sguardi sospesi” Palazzo del Broletto, Como, 2014)
Sguardi Sospesi
Palazzo del Broletto, Como
“Questa mostra oscilla tra passato e presente ripercorrendo circa 7 anni di lavoro di Valdi Spagnulo attraverso cicli di opere che trasformano il luogo espositivo in un teatro di percezioni visive e tattili. L’ambiente è attraversato dagli stati pulsionali dei materiali, concatenazioni di opere bilanciate su opposte qualità, dinamismi plastici modulati nella fermezza del metallo e lievi cromatismi depositati nella trasparenza del plexiglas. Valdi sviluppa il suo racconto polisensoriale cercando respiri dilatati, percezioni instabili del vuoto, vibrazioni aeree sospinte oltre i limiti del reale, prossime a quella vastità imponderabile cui aspira lo scultore mentre costruisce e trasforma i materiali scelti con ostinata accuratezza. Lo spettatore ha il compito di entrare nelle soglie abbagliate dal bianco totale e di ammirare le geometrie disseminate nello spazio, dialogando con metamorfosi di forme reversibili e con schermi di immaginarie galassie, fino a captare i mutevoli riverberi che modificano i confini prestabiliti. Nel percorso espositivo le opere si presentano nella dimensione irripetibile di nuove relazioni, partecipano a un’istallazione totale giocata sulle consonanze dei materiali, in uno scambio continuo tra valori strutturali e percezioni virtuali, processi fisici e mentali tenuti sempre sul filo della leggerezza. I cicli di ricerca (2007-2014) si collegano spontaneamente tra di loro come una costellazione d’immagini in cui s‘incontrano i caratteri persistenti dell’immaginario di Valdi: simmetrie infrante, torsioni in bilico, sconfinamenti lineari, impronte modulari, e ogni altra tentazione di inglobare architetture interiori e astrazioni spaziali. In questa dimensione polivalente spazio nascono inquiete tensioni mentali, cresce il conflitto tra emozione e razionalità, si avvertono possibilità sensoriali intrinseche alla luce che si rivela e -al tempo stesso- si trasforma in energia mentale proiettata altrove. Siamo in presenza di un’aspirazione a esprimere l’esserci della scultura come potenzialità di luoghi reali e virtuali, dimensione fenomenica di forme astratte e concrete, esplorate con passione per cogliere l’essenza dei valori costruttivi inusitati. Ed è proprio con quest’ansia di invenzioni spaziali che Valdi Spagnulo sta sviluppando la sua avventura creativa, interrogando i materiali e le tecniche, sperimentando le forme più appropriate per esprimere una verità immaginativa fatta non di soluzioni compiute ma di sguardi sospesi sul confine di molteplici sensi.”
C. Cerritelli